Non è facile chiamarsi Fornero. La riforma delle pensioni promossa dal governo Monti e la sua autrice sono state attaccate e strumentalizzate con una violenza ideologica quasi unica. Eppure Elsa Fornero non rinuncia alle sue ragioni: “Se mi chiamano, io vado”. A parlare di economia, di riforme, di pensioni, con uno sguardo che da sempre è rivolto alle persone e alla famiglia. Ed è uno sguardo, quasi una passione, che parte da lontano. Ne abbiamo parlato in una conversazione lunga, interessante, straordinariamente onesta. La professoressa (oggi emerita, ma sempre attivissima) misura con attenzione le parole, le scandisce quasi, con l’accuratezza di chi desidera farsi capire, senza sottrarsi di fronte ai giudizi più severi. Di una sola cosa non vuole parlare: della sua famiglia. Che, si intuisce, ha già pagato un prezzo troppo alto al populismo.
Economista per caso?
Elsa Fornero è diventata economista per un vincolo, non per una scelta: proveniente da una famiglia operaia (“dove non è mai mancato niente”) di San Carlo Canavese (Torino), diplomata in ragioneria, ha scelto di proseguire gli studi. E i regolamenti universitari, un anno prima della riforma del 1969, non consentivano a un diplomato in ragioneria altre scelte che Economia e Commercio. «Avrei forse studiato Lettere, ma alla fine credo che sia stato un bene: ho certamente scelto il versante più umanistico dell’economia, grazie alla guida preziosa di Onorato Castellino che mi ha fatto capire che l’economia significa studiare la società e i suoi comportamenti, le differenze». Senza mai pentirsi della scelta fatta, «anche perché c’era molto da fare e poco tempo per i rimpianti», aggiunge con sottile humour molto piemontese.
L’economia delle persone
«Io liberista? Non amo essere etichettata; caso mai, direi “liberale”. Sicuramente credo molto nella libertà personale, anche in campo economico, ma so bene che le istituzioni, in democrazia, forniscono regole per il bene comune cui bisogna attenersi; e anche l’etica comporta altre regole, cui pure bisogna attenersi. Quindi avere un orientamento liberale, non vuol dire disinteressarsi degli altri, della società. Anzi». Elsa Fornero ha scelto di studiare i problemi delle persone: «Quello che noi chiamiamo welfare, che non è solo la previdenza ma è il tema dei rischi che le persone incontrano nella vita, per i quali il mercato non è sufficiente e deve essere integrato dall’intervento pubblico. Fra tanti rami dell’economia, io ho prevalentemente dedicato la mia ricerca al ciclo di vita delle persone, nei suoi aspetti micro e macroeconomico: la formazione, il lavoro, il reddito, il risparmio, il mutuo per acquistare la casa, la previdenza per assicurare una certa sicurezza economica nell’età anziana. È un ambito molto sociale, molto umanistico».
La passione per le riforme
Quello per le riforme è un vero amore. Ad esse la professoressa ha dedicato un libro uscito nel 2018, intitolato proprio “Chi ha paura delle riforme?”. «È una delle parole più usate ma anche più abusate – puntualizza – e la responsabilità è anche delle organizzazioni internazionali che continuano a chiedere riforme: ma non l’avevamo già fatta? Attribuire alle riforme un valore taumaturgico è pericoloso: “Fate la riforma e sarete fuori dai problemi”. Non è così: la riforma è un cammino che non si esaurisce in Parlamento, bisogna che tutti concorrano a farla funzionare». E non sono a costo zero, sono “un investimento sociale” (una definizione che pare emanare luce, dopo anni di scelte di corto respiro). «E soprattutto devono essere comprese e condivise dalla maggioranza della popolazione: altrimenti la riforma viene accolta con diffidenza che poi i politici alimentano in modo populistico, come se fosse non più un investimento ma il frutto della cattiveria di qualcuno». C’è molta autobiografia in questa frase, ma anche una proposta molto lucida.
A scuola di economia
Per giudicare una riforma, per farla propria, bisogna capirla. «Noi viviamo in democrazia e ce la teniamo stretta. La democrazia richiede dei cambiamenti strutturali che chiamiamo riforme: questi cambiamenti devono essere discussi, recepiti e condivisi almeno dalla maggioranza della popolazione perché funzionino e producano quegli effetti positivi per cui sono stati prodotti». Ma ci sono due problemi. Il primo riguarda l’informazione: «Se le persone sono informate in maniera distorta, incompleta, talvolta in modo intenzionale, è difficile prendere decisioni corrette». E poi c’è il secondo, ancora più importante: «È la capacità di comprendere: non dobbiamo diventare tutti esperti di finanza, ma a mio avviso oggi l’alfabetizzazione economica è l’equivalente della campagna di alfabetizzazione all’inizio del ‘900». Ma come cominciare? Con qualche ora di economia alle superiori? «Alle superiori? Io comincerei alle elementari: è dimostrato da uno studio olandese che i bambini cui viene data una piccola paghetta da gestire per tutta la settimana diventano adulti più competenti finanziariamente. Questo vuol dire che si può fare, e se lo fanno le famiglie lo possono fare le scuole. Naturalmente bisogna che gli insegnanti siano preparati e superino un pregiudizio: “Parlare di denaro a dei bambini?”. Però mi sembra che l’atteggiamento complessivo della società sia più favorevole. Ci arriveremo».
Scuola. E lavoro
Parlando di scuola (e di resistenze culturali) non si può fare a meno di parlare del rapporto fra il mondo dell’istruzione e quello del lavoro: un rapporto tutt’altro che fluido specie negli ultimi tempi, quando il concetto stesso di “alternanza scuola/lavoro” (ora più propriamente Pcto) sembra responsabile di tutti i mali. «Nella scuola c’è resistenza nei confronti del mondo del lavoro. Eppure sappiamo che una delle cause della debolezza del lavoro giovanile è proprio questo “fossato” fra scuola e lavoro. È un tema grave, che richiede coraggio. Richiede una riforma, ma nel senso dell’apertura, del cambiamento di mentalità, come dicevo prima». Da ministra del Lavoro, Elsa Fornero ha lavorato a un progetto di apprendistato duale, insieme alla sua omologa tedesca Ursula von der Leyen, che prevedeva la possibilità per alcuni giovani dei quartieri difficili di Napoli di svolgere un periodo di apprendistato in Germania. «I ragazzi erano interessati, ma la protesta sociale organizzata è stata troppo forte e non se ne è fatto niente. Adesso abbiamo le manifestazioni contro la prova scritta alla maturità: io credo che gli studenti siano mal consigliati e che non si rendano conto che eliminare le difficoltà non li aiuterà poi nelle prove della vita. Dovrebbero battersi per una scuola migliore, non più facile».
Un portafoglio rosa
Ma torniamo per un attimo al tema dell’educazione finanziaria: se, come abbiamo detto, è indispensabile per tutti, non lo è ancora più per le donne, che spesso sono escluse per consuetudine dalle scelte economiche della famiglia, salvo poi trovarsi spesso a doverle affrontare da sole e con poca preparazione? «È verissimo. Tutta la nostra cultura è costruita sul presupposto della dipendenza della donna da un uomo. E invece la donna deve imparare a guardare al suo percorso di vita, che certo si combina normalmente con quello della famiglia, ma che deve avere come fine una sua indipendenza. Ad esempio le pensioni di reversibilità generose sono state uno strumento utile, ma non più adeguato. Come il pensionamento anticipato, che ha fatto comodo ma al tempo stesso è una trappola: sappiamo dai dati che i pensionamenti anticipati retroagiscono sulla carriera in maniera negativa, cioè chi ha maggiore probabilità di pensionamento anticipato fa meno carriera. Quindi bisogna togliere le discriminazioni, dando maggiori opportunità alle donne, superando la politica “comoda” delle compensazioni a posteriori per discriminazioni non sufficientemente combattute. In passato ho partecipato a uno studio economico e linguistico che si chiamava “Knit your portfolio” e che mostrava come i termini della finanza fossero molto maschilisti, le metafore belliche, aggressive: e invece si può benissimo spiegare la finanza alle donne, anche partendo da un linguaggio diverso».
Un paese che invecchia
Stiamo per salutarci, la professoressa ha un altro appuntamento che incalza. Ma, parlando del suo attuale ruolo come membro del Comitato per il Coordinamento della Politica Economica (un’iniziativa voluta dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Bruno Tabacci) ecco che improvvisamente evoca la madre di tutte le questioni. «Nel comitato mi occupo di demografia», afferma incautamente. La demografia: il problema dei problemi. E la conversazione si riaccende: «Ma certo, è un tema enorme, decisivo. Siamo concentrati sulla transizione energetica e digitale, e ora, drammaticamente, sul conflitto in corso tra Russia e Ucraina (che divampa proprio mentre questo articolo viene chiuso, ndr), ma la transizione demografica è una tragedia annunciata della quale si parla troppo poco. E anche la riforma previdenziale non parte mai dall’elemento centrale: se non mettiamo a posto la questione generazionale, non ci saranno pensioni». E visto che parliamo ai direttori del personale, Elsa Fornero rivolge loro un pensiero e un plauso: «Nel 2011 le imprese hanno avuto uno shock da mancato ricambio, a causa del blocco dei pensionamenti anticipati, e molti hanno riorganizzato la forza lavoro, valorizzando le risorse più anziane in modo che fossero produttive e che in prospettiva non chiudessero alle nuove entrate. E ha funzionato. C’è un lavoro di Banca d’Italia che analizza la reazione del settore manifatturiero privato alla riforma 2011 e mostra che per ogni uno per cento in più di lavoratori anziani, c’è un aumento di giovani dello 0,4. Giovani e anziani sono complementari, non alternativi. Le aziende lo hanno capito meglio della politica».
Siamo (davvero) ai saluti. Ma prima una domanda alla Elsa Fornero privata: quali sono le sue passioni, al di fuori dell’economia e dell’insegnamento? «Le mie passioni? – La domanda la coglie di sorpresa, ma l’esitazione dura un attimo. – Leggere romanzi; camminare; i miei nipoti; il mio orto. L’orto è difficile, sa? L’orto è una bella metafora di ciò che significa guardare al futuro».